E se una delle vie d’uscita dalla crisi fosse proprio investire risorse nell’occupazione femminile?
Le economiste, che inoltre collaborano da diversi anni con il Sole 24ore, hanno illustrato con dovizia di dettagli e numeri, nonché grande capacità di sintesi, cosa significhi per una nazione come l’Italia essere fanalino di coda in Europa per ciò che riguarda le politiche di genere.
La presentazione, coordinata da Magda Terrevoli, Presidente della Commissione per la Pari Opportunità presso la Regione Puglia, ha visto come interlocutore anche l’Assessore al Welfare del Comune di Bari, Ludovico Abbaticchio, che ha illustrato l‘impegno delle istituzioni cittadine che si stanno muovendo nella direzione dell’analisi di genere del bilancio e che si avvalgono dell’apporto partecipativo della Consulta delle Donne per promuovere azioni a favore delle pari opportunità.
Il dato incontrovertibile da cui ogni riflessione ha preso spunto è che in Italia le donne sono alla pari degli uomini (se non superiori) a livello di istruzione, ma poi il divario comincia ad ampliarsi man mano che si sale nella scala delle responsabilità, fino alla riduzione impressionante del numero di donne in posizioni di potere (un solo esempio tra tutti: solo due donne-rettore a fronte di una maggioranza di laureate).
In realtà investire in politiche a favore del lavoro delle donne significa lungimiranza da parte di una nazione, significa poter rilanciare l’economia facendo tesoro di quell’enorme bagaglio di esperienza e competenza femminile che è sottoutilizzata.
Il libro si apre con tre storie emblematiche di donne, di differenti fasce d’età, che - malgrado grinta, determinazione e competenza – nel nostro paese sono costrette a dover scegliere tra carriera e famiglia, a differenza delle loro coetanee in Europa, restando per l’appunto “in attesa di trovare spazi adeguati per lo sviluppo delle loro competenze, senza rinunce di sorta. La domanda da porsi è se infatti si tratti davvero di scelte individuali o di adattamento ad ostacoli effettivi di tipo socioculturale.
Rispetto agli obiettivi della Strategia di Lisbona per il 2010, che si poneva come orizzonte per i paesi europei il raggiungimento del 60% di occupazione femminile, l’Italia è rimasta molto indietro (tra il 46% e il 47% per le donne di età compresa tra i 15 e i 64 anni), mantenendo per di più un netto il divario tra il nord e il sud del paese. Si ricordava che solo Malta è più indietro di noi.
In quest’ottica non sembra più un paradosso che l’Italia abbia un tasso di fecondità tra i più bassi in Europa e che il sud ne risenta in misura maggiore: è evidente che dove c’è più occupazione si fanno più bambini in quanto maggior reddito significa maggiore sicurezza.
In sintesi gli ostacoli ad uno sviluppo equilibrato del nostro paese possono riassumersi in tre punti:
1. il contesto famigliare, in cui non è ancora sviluppata la logica della condivisione all’interno della gestione del quotidiano;
2. il contesto culturale, in cui si mantengono ancora differenze tra l’educazione dei bambini e delle bambine improntate agli stereotipi di genere ed in cui più dell’80% delle persone sono convinte che i figli di madri lavoratrici “soffrano;
3. il contesto istituzionale, che potrebbe fare molto di più per promuovere lo sviluppo di un nuovo concetto di famiglia, in linea con l’evoluzione della società.
Si sottolineava infatti come gli asili-nido siano uno strumento imprescindibile di crescita per i più piccoli, soprattutto per coloro che vivono in famiglie disfunzionali o disagiate che non possono offrire loro gli strumenti necessari per sviluppare talenti potenziali che risulteranno pertanto sprecati.
L’assessore Abbaticchio ha inoltre sottolineato come curarsi della parità di genere nell’occupazione significhi anche affrontare in modo concreto il tema della povertà, che pesa in particolar modo sui più giovani e si coniuga con prostituzione, sfruttamento minorile, lavoro nero, aggiungendo che la città di Bari sta progettando un uso di fondi regionali e fondi sociali europei proprio in tale direzione.
Le economiste hanno suggerito misure concrete che possono essere adottate, ad esempio la defiscalizzazione per le imprese che assumono donne, in modo da poter contribuire in modo sostanziale all’emersione del lavoro nero, e minor carico fiscale nella tassazione, che deve restare su base individuale, con detrazioni maggiori legate sia alla cura dei figli (p.e. impiego di baby-sitter, ecc.) sia nel caso di lavoro da parte di entrambi i coniugi con figli di età inferiore ai tre anni. Il concetto sotteso al libro è che più lavoro in condizioni di effettiva parità per le donne significa un’effettiva crescita economica quantificabile anche in termini di PIL (Prodotto Interno Lodo). Si creerebbe quel circolo virtuoso che spinge ad una maggiore domanda di servizi e dunque più crescita.
La Conferenza Nazionale di Milano sulla famiglia ha invocato maggiori aiuti per le famiglie italiane da parte dello Stato; tuttavia al momento in Italia le famiglie sono agenzie di erogazione del Welfare e se vogliamo incentivare l’occupazione femminile il “quoziente familiare'' così tanto enfatizzato non sarebbe la soluzione adeguata perché spingerebbe ancora una volta le donne a rimanere a casa. Meglio, dicono le autrici del libro, pensare al “fattore famiglia'', con tassazione su base individuale proprio per non disincentivare il lavoro femminile.
Interessante poi il punto di vista delle economiste sui “congedi parentali'' che in nazioni all’avanguardia, come la Norvegia, sono obbligatori per tutti gli uomini, della durata di un mese, con retribuzione al 100% ed indipendenti da quello della madre. In Italia una misura di questo tipo potrebbe aiutare ad innescare quel processo culturale che implica un’effettiva logica di “condivisione'' all’interno della famiglia, ricordando che in Italia siamo tra gli unici a non prevedere neanche un giorno di congedo obbligatorio per il padre.
Altra misura-shock che le autrici ritengono necessaria per scuotere gli equilibri è quella delle “quote di rappresentanza'' in quanto, dal momento che le posizioni di vertice vedono una sorta di monopolio maschile nella gestione del potere, non sembrano esserci molte altre strade da percorrere. Naturalmente si tratta di superare il pregiudizio negativo legato alle “quote rosa'', che sembrano ridurre la percezione della qualità della persone che vi accedono e che, inoltre, sono state usate in politica negli ultimi tempi in chiave puramente formale, come se si trattasse solo di una questione di numeri e non di qualità dei modelli proposti, che sono rimasti di tipo subalterno e declassato.
Al contrario le quote di rappresentanza dovrebbero avere la funzione di rendere la competizione ad armi pari, rimuovendo i privilegi iniziali di un genere a danno dell’altro, per permettere davvero l’inclusione del capitale umano femminile italiano sprecato.
Il libro e l’incontro si concludono con una delle “storie che vorremmo'', ipotesi di riscrittura di biografie femminili nella direzione della valorizzazione di talenti e desideri; all’interno di questo orizzonte viene menzionato il Comitato “Pari o dispare'', (di cui è presidente l’economista Fiorella Kostoris, con presidente onoraria Emma Bonino, e di cui fanno parte le partecipanti all’incontro) che si presenta come osservatorio atto a contrastare le discriminazioni di genere e gli stereotipi femminili veicolati dai media in nome di quel nuovo modello di società che renderebbe finalmente l’Italia un paese davvero moderno e più giusto.